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Empedocle: un enigma tra intuizioni e aporie

Pubblichiamo un saggio del prof. Calogero Sciortino, per molti anni docente di Storia e Filosofia della nostra scuola, dedicato alla figura di Empedocle.

1. LA PERSONALITÀ
Chi fu Empedocle?
Agli occhi dell’interprete moderno, Empedocle si presenta come un enigma, circondato da quel fascino che sempre avvolge il mistero.
Tutti quelli, filosofi o dossografi, che nell’antichità, o ancora oggi, se ne sono occupati, o se ne occupano, ce ne danno ognuno un’immagine diversa e, talvolta, contrastante da quella di tutti gli altri; è come se ognuno lo avesse guardato o lo guardasse attraverso una lente diversa per colore e per diottrie. Ebbene, sovrapponendo le diverse immagini, non si riesce a comporne una; oppure, quando con fatica si riesce a comporla, essa risulta sfocata nei contorni, approssimativa, talvolta deforme. Dai suoi frammenti, comunque, traspare un’umanità profonda che, in qualche modo, ce lo rende vivo, vicino, presente.
Perché tante divergenze tra i testimoni dell’antichità e gli interpreti recenti? Forse perché ognuno voleva o vuole trovare in lui quel che cercava o cerca, anziché quello che egli veramente era, o forse perché c’era nella sua personalità, certamente straordinaria, un quid inafferrabile, inintelligibile per i canoni dell’uomo comune del mondo antico o del mondo moderno?
Potrebbe essere questo quid costituito, oltre che da alcuni poteri non comuni, da una profonda solidarietà umana, che si manifesta, pur essendo egli un aristocratico per nascita, nella sua opzione democratica, per cui fu coinvolto nelle vicende politiche di Akragas, travagliata dalla lotta tra aristocratici e democratici e nella partecipazione al dolore che affligge l’uomo?
Se così fosse, Empedocle ci sarebbe contemporaneo più che mai; anzi, egli sarebbe coevo all’homo perennis, perché, sebbene vissuto in un tempo storicamente determinato, è capace, tuttavia, di rompere gli schemi del suo tempo per assumere una sorta di dimensione metastorica, che lo rende contemporaneo all’uomo di ogni tempo.
Perché gli si attribuiscono strane e disparate vesti e perché si tramandano tante divergenti immagini?
Si procede per punti interrogativi non certo per amore di retorica, ma perché l’approccio al mistero non può avvenire che per timide e problematiche ipotesi a cui, per altro, non potranno mai seguire verifiche illuminanti.

Chi fu veramente?
Se per noi moderni gran parte del fascino deriva dal mistero, per gli antichi, a lui contemporanei o postumi, dovette essere il contrario: fu forse il fascino che circondava la sua personalità, certamente straordinaria, a circondarlo di quell’alone di mistero e di leggenda che ci allontana, rendendocelo inafferrabile, dall’Empedocle storico.
Ci viene presentato ora come ingegnere capace di opere titaniche (come deviare il corso di un fiume o tagliare la sommità del colle di Akragas, ottenen¬do così un vallone, modificando il flusso delle acque o la direzione dei venti per bonificare le città infeste) ora come sciamano o taumaturgo, capace di tenere prigionieri i venti, di curare le malattie e di richiamare i morti alla vita, ora come fondatore della retorica e maestro di Gorgia, ora come iniziatore della scuola medica siciliana, ora come una sorta di Cagliostro ante litteram, capace di circuire il prossimo con le sue arti, vere o presunte, ora come un semidio, che scompare alla vista dei mortali per essere assunto tra gli dei, ora, infine, come un martire della scienza, che si, lancia dentro un cratere in eruzione per studiare i meccanismi del vulcano.
Ma di tutte queste immagini qual è quella di Empedocle? Chi fu egli veramente?
A questa ricorrente domanda nessuno è in grado di dare una risposta definitiva.
Quale che sia stata la sua personalità, essa, comunque, non è riconducibile al canone classico del l’intellettuale, del saggio, del filosofo greco che si gratifica nel theorein, che con il lucido intelletto controlla le inclinazioni, domina le passioni e sa elevarsi, senza mai trascurarla, dall’empiria del quotidiano alla contemplazione disinteressata della verità intellegibile, che è fonte della perfetta felicità.
Misura, equilibrio, distacco, contemplazione disinteressata del vero non sembrano le fondamenta su cui Empedocle avrebbe costruito la sua personalità, né cali ha mai tentato di accreditarla in questi termini.
In Empedocle la sofia, il sapere non è mai theorein, contemplazione disinteressata del vero, ma praxein, azione, perché il sapere è sempre strumentale alle technaì, cioè all’esercizio di quelle arti che servono a lenire i dolori dell’uomo.
Forse Empedocle, pur restando un enigma, è più vicino all’uomo comune del V o del IV sec. a.C., come all’uomo di oggi, chiamato a fare i conti con il dramma dell’esistere, con le inquietudini e le angosce, con il non senso dell’étre au monde, con tanti eventi dinanzi al quali l’equilibrio, la misura, la coerenza, il distacco sono virtù che naufragano nell’astrattezza e nel grande mare dell’utopia.
Tanto emerge dalla lettura dei frammenti di Empedocle, dove l’ansia dell’uomo si mescola alla genialità del profeta e del filosofo scienziato, dove il rigore epistemico si mescola alla magia e allo slancio religioso, dove l’umanità, però, è sempre presente con il cuore che palpita, con la mente che ragiona, con le aspettative e le contraddizioni dell’uomo di sempre. Per un verso Empedocle è lo specchio del suo tempo, il V secolo, che è il tempo in cui l’intelletto greco, sebbene già lucido e maturo, non aveva ancora del tutto fugato le tenebre della superstizione, in cui la filosofia e la scienza si mescolavano con la magia, in cui il razionalismo maturo e critico della sofistica abitava quasi solo ad Atene, e non si era diffuso nella periferia dell’Ellade, in cui le grandi cattedrali del pensiero classico non avevano le fondamenta su cui potersi erigere; per l’altro verso, con la sua umanità profonda, con la sua mancanza di distacco, con le sue aporie si fa contemporaneo all’uomo di ogni tempo.

L’enigma però non si scioglie.
Se chiediamo ad Empedocle di aiutarci a sciogliere l’enigma che lo riguarda, egli sembra divertirsi a complicarcelo. Vediamo, infatti, cosa ci risponde in un noto frammento:
O amici, che la grande città presso il biodo Akragante abitate nel sommo della rocca, solleciti di opere buone, porti fidati per gli ospiti, ignari di mal¬vagità, salve! Io tra voi come un dio immortale, non già mortale, m’aggiro, da tutti onorato come si conviene, cinto di sacre bende e di corone fiorite. Con i quali quando giungo alle città fiorenti da uomini e da donne sono venerato ed essi mi seguono in, folla, desiderosi di sapere dove sia il sentiero che porta al guadagno e gli uni hanno bisogno di vaticini, altri invece per mali di ogni genere chiedono di ascoltare una voce di facile guarigione da lungo tempo trafitti da aspri dolori.
(Framm. n. 112 trad. it. a cura di G. Giannantoni, in I Presocratici, Bari, Laterza, 1962, vol. 1).
Si avverte il poeta ispirato, nel cui petto palpita un cuore che appassionatamente partecipa al dolore che affligge i suoi simili.
Questa passione per l’umanità nasce forse dalla convinzione filosofica e dalla credenza religiosa che una sola è la vita cosmica e che tutti gli uomini vivono la stessa vita, che è divina.
Fu forse tale passione per l’umanità che lo indusse a schierarsi con i democratici della sua città nella lotta contro la tirannide, subendo così anche l’umiliazione dell’esilio, perché è probabile che proprio dall’esilio egli mandi il saluto contenuto nel citato frammento.
Ma è veramente questo il contenuto del messaggio del frammento? Il testo greco, specialmente nella prima parte, è suscettibile di altre traduzioni e, perciò, di altre interpretazioni. Ecco, per esempio, un’altra traduzione interpretazione della prima parte del frammento:
O amici, che occupate la forte rocca, al sommo della città presso la bionda corrente dell’Acragante, impegnati in sagge opere di governo, venerandi approdi per gli ospiti, ignari di malvagità: bravi! Ed anche io, secondo voi, non più come un uomo mortale fra tutti gli altri sono stimato, quando vado in giro, ma do l’impressione di un dio sovrano, incoronato con infule e con fiorami vivaci.
(Trad. it. a cura di C. Gallavotti, Bruno Mondadori, Milano, 1994).
Il messaggio così assume un’altra tonalità: Empedocle non sembra rivolgersi a tutti gli Akragantini, ma solo a quelli che abitano nell’acropoli e che governano la polis, che erano aristocratici e che erano suoi avversari politici.
Ma come è possibile che Empedocle tributi tante lodi a suoi avversari politici? Le ipotesi interpretative possono essere diverse e, onestamente, non sappiamo quale scegliere. t possibile che egli voglia porsi al di sopra delle parti e tentare una conciliazione con gli avversari; è anche possibile che voglia rispondere ad una maldicenza messa in giro da questi ultimi (come dire: siete voi che avete messo in giro la voce per cui tutti mi adorano come un dio); è ancora possibile che egli voglia affermare di essere venerato come un dio suo malgrado (come dire che ciò è dovuto all’ignoranza e alla superstizione del popolo, per il quale però il filosofo dimostra comprensione); è, infine, possibile che il messaggio sia impregnato di feroce ironia verso gli avversari i quali sarebbero tutt’altro che “Ignari di malvagità” e “porti fidati per gli ospiti” per cui voglia rimproverarli di averlo cacciato in esilio, mentre egli, girovagando da città in città, esule, viene venerato come dio (come dire: nemo profeta in patria).
Ma è possibile un’altra lettura: perché escludere che Empedocle abbia voluto lanciare un messaggio ambiguo o misterioso, che, del resto, sarebbe in linea con il contenuto magico e profetico del poema Sulle Purificazioni che è aperto proprio da questo passo? Perché, in altre parole, escludere che l’enigmaticità di Empedocle sia dovuta, almeno in parte, a lui stesso, ad una voluta ambiguità del suo messaggio o a certi suoi contraddittori, almeno per noi moderni, comportamenti?

In ogni caso l’enigma non si scioglie.
Comunque, però, nel frammento in questione emergono senza enigmaticità la passione di Empedocle per l’umanità, che si traduce in partecipazione al dolore, e la consapevolezza di chi ritiene di possedere poteri straordinari.
Ma quali sono questi poteri? Sono i poteri connessi all’esercizio delle technai, cioè delle conoscenze che permettono di dominare, o almeno di controllare, la natura o sono i poteri connessi all’esercizio delle pratiche magiche e alla pretesa di vaticinare, o, infine, sono entrambi i tipi di potere?
Non lo sapremo mai con certezza.
E possibile, comunque, che per Empedocle la magia potesse arrivare dove la scienza non riusciva ad arrivare e che la magia completasse in qualche modo la scienza. Empedocle non avvertiva ancora il contrasto tra la scienza e la magia, come lo avvertirà la cultura ufficiale dell’età classica; neppure l’età classica, però riuscirà a liberarsene del tutto, come le epoche posteriori del resto (si pensi al Rinascimento). Questo non dovrebbe meravigliarci più di tanto, se anche oggi, nel secolo del vertiginoso progresso scientifico, alle soglie del terzo millennio, e della tecnologia più avanzata, frequenti fatti di cronaca non solo ci attestano che c’è un revival delle pratiche occulte, ma che neppure presso tanti uomini di cultura, o addirittura presso uomini con responsabilità di governo, le pratiche magiche sono in disuso.
Gli studiosi ancora oggi non riescono a trovare accordo nel delineare la sua personalità e i rapporti con il suo tempo: a Jaeger, per esempio, che vede in Empedocle un uomo in anticipo rispetto al suo tempo, Dodds obbietta che non si può facilmente accettare la sua definizione di Empedocle come di “un nuovo tipo sintetizzante di personalità filosofica” poiché ciò che in lui non troviamo è appunto il tentativo di sintetizzare le sue opinioni religiose e le sue idee scientifiche. “Se vedo giusto aggiunge Dodds Empedocle non rappresenta un tipo nuovo di personalità, ma anzi uno molto antico: lo sciamano, cioè, che unisce in sé le funzioni ancora non differenziate, di mago e naturalista, poeta e filosofo, predicatore, guaritore e pubblico consigliere. Dopo di lui tutte queste funzioni si fecero autonome: da allora in poi i filosofi non furono più né poeti né maghi, anzi un uomo come Empedocle rappresenta già un anacronismo nel V secolo” (Erik Dodds: I Greci e l’irrazionale, trad. it. a cura di Virginia Vacca De Bosis, Firenze, 1983, p. 185).
Un parere analogo aveva espresso Aristotele nella Metafisica (984 a) che, dopo averci informato che Empedocle era più giovane di Anassagora, aggiungeva subito, però, che sembrava più antico. Ma né Aristotele né Dodds tengono sufficientemente conto degli scenari in cui operavano i due filosofi. Quello in cui operava Anassagora era lo scenario dell’Atene dell’età di Pericle che, seppure con difficoltà, si avviava a diventare il centro culturale dell’Ellade, mentre lo scenario in cui operava l’Akragantino era quello della periferia dell’Ellade, dove le masse superstiziose non chiedono al Maestro la difficile via dell’intelletto per la comprensione del mondo, ma la facile via per la liberazione dal mondo o, meglio, dal dolori che l’essere al mondo comporta, come lo stesso Empedocle attesta nel frammento n. 112 che abbiamo citato.
Nel filosofo di Akragas, comunque, si delinea chiaramente anche una mentalità scientifica che è presente in tanti suoi frammenti, come ad esempio, nel frammento n.100 (in Giannantoni op.cit.) dove viene descritto, in termini ana-litici, il fenomeno della traspirazione del corpo attraverso i pori, distribuiti sulla pelle e dotati di valvole, che permettono la penetrazione nel corpo dell’aria dall’esterno, impedendo, nel contempo, la fuoriuscita del sangue; la scienza però non è così forte da debellare la magia, perché essa è ancora priva di rigore, e la magia non è ancora così debole da cedere il passo alla scienza.
Esse non sono ancora in conflitto nella enigmatica personalità di Empedocle.

2. TRA SCIENZA E MAGIA
Questo mancato contrasto tra scienza e filosofia, da una parte, e religione mistica e magia, dall’altra, può essere la chiave di lettura dei suoi frammenti. Di Empedocle ci rimangono circa 500 versi dei forse 3000 (per qualcuno 6000) di cui si costituirebbero le sue due opere: Tà fysica (la fisica) e Oi Katharmoì (Le purificazioni). La prima presenterebbe una visione filosofico scientifica del mondo, la seconda, invece, presenterebbe una visione mistico religiosa della realtà di chiara derivazione orfico pitagorica.
Questo almeno si è creduto di poter dire sulle due opere di Empedocle, tanto che Rosario Conti, sulla scorta di altri, scrive: “Qual è il vero Empedocle? Forse tutti e due. Nella Fisica si ha una sorta di panteismo in cui la divinità è tutta la materia cosmica, ridotta armonicamente in una sola cosa dall’amore, nelle Purificazioni, invece, si ha un teismo schietto e preciso per cui la divinità è solo uno spirito sacro ed ineffabile che scorre tutto il mondo con il veloce pensiero. t probabile continua Conti che Empedocle da un entusiasmo religioso dei primi anni sia passato, in età matura, alla fredda riflessione speculativa e, quindi, dalla ricerca scientifica ad una visione quasi mistica. La magnificenza letteraria dei due poemi è stata causa di numerosi entusiasmi” e cita, tra l’altro, Lucrezio. (R. Conti Cosmogonie orientali e filosofia presocratica, Roma, 1967, pp. 283 284).
Rosario Conti, agrigentino di Licata, è stato un fine ed erudito studioso della nostra terra, troppo poco noto rispetto ai suoi meriti, e si è occupato diffusamente anche di Empedocle nella splendida opera sopra citata; per questo mi piace menzionarlo e presentarlo a quanti, non hanno avuto, come me, la fortuna di conoscerlo e di conversare con lui su Empedocle, come su mille altri temi filosofici, o di leggere i suoi dottissimi libri.
Non si può non concordare con i suoi giudizi circa la magnificenza letteraria delle opere di Empedocle, così come non si può dissentire dalla definizione del pensiero di Empedocle come panteismo e come misticismo.
Ciò che oggi non si può più condividere, invece, è la contrapposizione tra le due opere di Empedocle definite una come scientifica e l’altra come mistica e che ci sarebbero state ben due crisi esistenziali che lo avrebbero indotto dapprima ad abbandonare la religione per la scienza e poi ad abbandonare la scienza per tornare alla religione e addirittura alle pratiche magiche. Filosofia, scienza, religione, magia, poesia. politica, ecc. Empedocle sono tutte compresenti ambedue le opere. Scrive, infatti, Dodds: 1l frammento in cui Empedocle rivendica la facoltà di tenere a freno i venti, produrre e arrestare la pioggia e risuscitare i morti fa parte del poema Della Natura non Delle Purificazioni; dallo stesso poema proviene il frammento 23 in cui il poeta ordina al discepolo di ascoltare la parola del dio (…). Al poema Della Natura appartiene anche il frammento 15 che sembra contrapporre quel che si suol chiamare vita ad una esistenza più vera, anteriore alla nascita e posteriore alla morte” (Dodds op. cit. pp. 184 185).
Non c’è stato perciò in Empedocle un passaggio dalla religione alla scienza, né una ulteriore involuzione dalla scienza alla magia: questi aspetti convivono e sono compresenti contemporaneamente nelle due opere.
La recente scoperta di un codice conservato a Strasburgo, rinvenuto agli inizi di questo secolo in Egitto, purtroppo scomposto in una miriade di frammenti, che gli specialisti stanno tentando di ricomporre, e contenente versi di Empedocle appartenenti a quelle che venivano ritenute due opere distinte, sembra giustificare addirittura l’ipotesi secondo la quale egli avrebbe composto una sola opera dai contenuti scientifici, religiosi, iniziatici e magici, che, se sono incoerenti per noi, non lo erano per lui.
Sul piano religioso è fuori dubbio che per Empedocle la divinità si identifica con la materia cosmica costituita dai noti quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) compenetrati in unità ad opera dell’amore (filia) in uno sfero (sfairos) che, però, a causa dell’odio (neikos) viene a disgregarsi per poi ricomporsi, in una vicenda cosmica ciclica caratterizzata dalla lotta tra filia e neikos. Dio è la materia, che, perciò, vive in tutte le cose, le quali nascono e periscono nei cicli¬ci intervalli tra lo sfero (che è il momento in cui l’amore aggregante è dominante) e il caos (che è il momento in cui domina l’odio che separa). Ebbene, in questa visione non c’è contrasto alcuno tra una fisica panteista (per cui tutto è dio, dio è in tutto e tutto è in dio) e il misticismo religioso che coglie in ogni cosa la presenza e la vita stessa di dio.
Tutto si genera da una unità originaria (una sola è la vita del cosmo) simile all’Uno di Senofane o all’Essere di Parmenide, unità originaria, temporaneamente scissa, di cui il filosofo avverte struggente la nostalgia.
È certamente presente in Empedocle, infatti, la coscienza del tragico, anche se temporaneo, distacco dallo sfero, così come è presente il trasporto verso l’annullamento della precaria esistenza individuale nell’unica vita cosmica.
A coloro che parlano, infine, di materialismo della Fisica e di spiritualismo delle Purificazioni è facile obbiettare che spirito e materia non sono, nel pensiero presocratico, due sostanze distinte e contrapposte, se in Eraclito il pensiero (logos) si identifica con una sostanza fisica (il fuoco) e se in Parmenide l’Essere, che è poi il pensiero, conserva la fisicità della sfera; è solo a partire da Platone, con quella che egli chiama seconda navigazione, che comparirà Feidos e con esso la distinzione, o meglio la contrapposizione, tra sensibile ed intellegibile, tra materiale ed immateriale.
Molto suggestiva è la concezione religiosa di Empedocle anche se poco chiara. Certa è l’influenza dell’orfismo e del pitagorismo, che però Empedocle forse interpreta naturalisticamente e, tuttavia, con profonda tensione mistica.
Dio è certamente lo sfáiros cioè l’unità non ancora scissa degli elementi aggregati dall’amore. L’uomo, perciò, composto dagli stessi elementi naturali dello, sfairos è divino (daimon).
La scissione, dovuta all’odio, è peccato, come lo era per Anassimandro la separazione delle sostanze dall’apeiron; ma l’uomo demone, che vive separato da dio, pecca ancora, perché macchia le sue mani di sangue assassino e perché giura il falso; e allora deve scontare le sue colpe attraverso molteplici e successive vite mortali in un doloroso stato di separazione dall’armonia dello sfero-dio. Osserviamo con quanta efficacia Empedocle descrive la misera condizione del mortale:
C’è un vaticinio del fato, lui decreto antichissimo, eterno, primigenio degli dei, suggellato con ampi giuramenti: che quando uno, irretito nel peccato, si macchia le mani di sangue assassino o quando, al seguito della Discordia, giura il falso nel novero dei demoni, sorteggiati da una vita eternamente lunga, costui debba errare tre volte diecimila anni lontano dai beati e mutare faticosi sentieri della vita per nascere nel corso del tempo sotto molteplici, forme di esseri mortali. La potenza dell’etere, infatti, li caccia nel mare, il mare li risputa sulla terra, la terra verso i raggi del sole lucente e questi li butta nei vortici dell’aria. L’uno li prende dall’altro e a tutti riescono odiosi. Uno di questi sono orci anch’io, lontano da Dio e fuggiasco, poiché confidai nella folle Discordia.
(Framm. n. 115; la traduzione è tratta da Werner Jaeger La teologia dei primi pensatori greci trad. it. di Ervino Pocar, La Nuova Italia, Firenze, 1982 p. 223).
L’Empedocle che abbiamo visto esaltarsi nel frammento n. 112 come un dio, in questo frammento si avverte lontano da Dio e fuggiasco, cioè in una drammatica condizione esistenziale, comune a quella di tutti gli esseri viventi, perché ha confidato nella “folle Discordia”. Contraddizione? È tale per noi moderni, ma non è forse avvertita come tale dall’Akragantino che, in ogni cosa, percepisce anche qui se stesso e tutti gli esseri viventi. come demoni, cioè come dei decaduti.
La personalità di Empedocle, del resto, non è il luogo dove cercare la coerenza o una visione della vita e del mondo lineare.
Non presumiamo di avere sciolto un enigma, non ce lo eravamo neppure proposto, perché sapevamo che questo era impossibile e che gran parte del fascino che circonda Empedocle deriva proprio dal mistero e dalle sua aporie.
In ultima analisi, la personalità di Empedocle resta per me un centro in cui vanno a confluire varie e disparate istanze, come macchie di colore che non riescono a comporre l’unità di un disegno.

3. LA FILOSOFIA
Neppure la sua filosofia si dispiega con coerenza e linearità: molteplici sono, infatti, assieme alle intuizioni felici, le aporie che non possiamo fare a meno di sottolineare.
La filosofia dell’Akragantino si muove nell’alveo dell’eleatismo che, come è noto, celebra l’unità, l’unicità, l’immortalità dell’Essere metafisico, che contesta e nega il non essere perché ripugnante al pensiero, tanto sul piano fisico (e si traduce in negazione del vuoto e in negazione del divenire) quanto sul piano logico (e si traduce in negazione della molteplicità), che afferma il valore apparente del divenire, del nascere come del morire. L’essere è, perciò, ingenerato ed eterno, perché ammettere il nascere e il morire comporterebbe l’esistenza del nulla, prima e dopo la vita. Il movimento, il divenire, il nascere, il morire, la molteplicità degli esseri rientrano nella fallacia dell’opinione (doxa) del senso comune e sono inaccettabili per l’intelligenza che, invece, è la facoltà dell’uomo di scrutare oltre il senso comune. Fin qui l’eleatismo.
Ma il nascere, il morire, il divenire e la molteplicità, seppure apparenti, per il senso comune esistono e chiedono all’intelligenza di essere spiegati e chiariti; questa è la novità di Empedocle, che si identifica nel riconoscimento delle ragioni, del senso comune, cioè della doxa; insomma, il senso comune ha, secondo Empedocle, le sue ragioni che la ragione degli Eleati non conosce. Ecco, perciò, il comparire delle quattro radici (rizomata), delle quattro sostanze primordiali, dal cui mescolarsi nasce ciascuna delle cose molteplici e dal CUI separarsi deriva la morte funesta, anche se apparente.
Leggiamo un altro suggestivo frammento di Empedocle, che si rivolge al suo immaginario discepolo Pausania:
Per prima cosa ascolta che quattro sono le radici di tutte le cose: Zeus splendente ed Era avvivatrice, ed Edoneo e Nesti, che di lacrime distilla la sorgente mortale “. (Framm. n. 6)

Queste quattro sostanze, qualitativamente determinate, esistenti ab aeterno, conservano ciascuna i caratteri dell’Essere eleatico, ad eccezione della unicità; le cose, però, si compongono del loro miscuglio, in combinazione quantitativamente diversa, delle quattro radici.
Avviene nel cosmo, sostiene Empedocle, quel che avviene sulla tavolozza del pittore di immagini votive, che, mescolando pochi colori, può ottenerne infiniti, variando il rapporto quantitativo tra i colori base. Nessuna cosa in realtà nasce o muore. perché il nascere e il morire sono solo il comporsi e lo scomporsi di miscugli; eterne, invece, e prive di modificazioni qualitative restano le quattro sostanze.
La svolta dal monismo eleatico alle teorie corpuscolari di Anassagora e di Democrito passa attraverso il pluralismo di Empedocle che, anticipando Platone, commette, nei riguardi del Maestro di Elea, una sorta di parricidio. Il parricidio di Platone, però, rispetto a quello del filosofo akragantino, avrà ben altra maturità (un secolo non sarà passato invano): nascerà, come quello di Empedocle, dall’esigenza di giustificare la molteplicità (non più delle sostanze fisiche, ma delle essenze metafisiche), ma sarà legittimato dalla introduzione della categoria logica ed ontologica dell’alterità, che renderà possibile la dialettica. mentre quello di Empedocle, nato per dare giusta soddisfazione al senso comune, si consuma sulla base di una profonda incoerenza logica (aporia).
La molteplicità delle sostanze empedoclee postula, se non proprio l’esistenza del non essere, almeno quella del vuoto, negato dagli Eleati e non ancora introdotto da Empedocle.
Anche la teoria del miscuglio (cioè, della compenetrazione tra le sostanze, che ha luogo attraverso i pori, che sono alla superficie di ciascuna sostanza, e attraverso i canali che sono nel corpo di ciascuna sostanza, per i quali penetrano gli effluvi provenienti da altre sostanze, teorie che Empedocle utilizza anche per spiegare l’evento della conoscenza) postula l’esistenza del vuoto, che sarà solo Democrito più coerentemente e scientificamente ad introdurre.
L’aggregarsi e il disgregarsi dei quattro elementi costituiscono l’eterna e ricorrente vicenda cosmica: il cosmo è il teatro di una drammatica lotta tra filia e neikos (amore o amicizia e contesa o inimicizia o odio).
La prima provoca simpatia, attrazione, compenetrazione tra le sostanze che, perciò, in virtù di essa si mescolano; quando essa prevale incontrastata, le radici sostanze si fondono armonicamente in una sola vita, che è quella dello sfero perfetto che gode della solitudine che tutto l’avvolge.
Ma la contesa, provvisoriamente vinta e scacciata, riprende la lotta e gradualmente, man mano che essa prevale, le radici si dissociano e si distaccano dallo sfero; tuttavia, l’amore, seppure nella disgregazione dello sfero, riesce a disaggregarle parzialmente e provvisoriamente, dando vita alla molteplicità degli esseri che così nascono per tornare a disgregarsi e a morire. Quando l’amore sarà del tutto scacciato regneranno la separazione, la disgregazione, il caos, la solitudine di ciascuna sostanza.
Questa concezione cosmologica risulta inquietante, come inquietanti sono tutte quelle filosofie che negano il governo del logos, che segnano la supremazia dell’irrazionale, del dionisiaco sull’apollineo, che tolgono alla vita e ai suoi eventi ogni senso logico, ogni spiegazione ragionevole.
L’universo di Empedocle è il teatro, infatti, dell’azione di due forze non riconducibili nella sfera del razionale: filia e neikos richiamano alla mente l’eros e il thanatos di Freud, l’irrazionale e l’istintuale di Schopenhauer e di Nietzsche; non c’è nell’Akragantino la visione olimpica e statica degli Eleati, che identificavano l’essere con il pensiero, non c’è il panlogismo di chi identificherà razionale e reale, non c’è la confortante visione di chi coglie nel mondo il dispiegarsi di un disegno razionale o provvidenziale.
Resta solo una visione sconfortante della vita e della storia, resta solo un’esistenza precaria perché senza senso, perché caratterizzata da una fatalità priva di spiragli, da una provvisorietà desolante, perché governata, in ultima analisi, da forze oscure e misteriose. In Empedocle, inoltre, niente è definitivo, tutto è precario e provvisorio: anche la perfetta armonia dello sfero è, in fin dei conti, solo un momento nel divenire cosmico, un momento anch’esso precario e provvisorio, destinato ad essere distrutto, per rinascere e tornare a distruggersi ciclicamente. C’è in Empedocle un pessimismo privo di prospettive, forse generato in lui dalla partecipata contemplazione del dolore umano.
Evitiamo di descrivere le ere empedoclee che scandiscono il ricorrente divenire cosmico, oscillante tra lo sfero e il kaos, evitiamo la descrizione, talvolta apocalittica, che per certi versi sembra preludere all’evoluzionismo del secolo scorso, della nascita del mondo vegetale, animale e umano, per porci una domanda a cui non sappiamo trovare risposta: cosa sono amicizia e contesa, qual è la loro natura, come si spiegano?
Non credo che si possano, anche per quello che è stato detto sopra, accettare ipotesi che le spieghino come forze di natura trascendente rispetto alla materia, come forse si può fare per il nous di Anassagora. t probabile che Empedocle pensasse a due veri e propri elementi fisici, e in tal caso le sostanze non sarebbero più quattro ma sei, o a qualcosa di fluido che circonderebbe gli elementi fisici, per cui non si uscirebbe, neanche così, dall’aporia relativa al numero degli elementi; forse Empedocle, come altri presocratici, si limita ad antropomorfizzare la materia, attribuendole gli stessi caratteri della psiche umana che, però, dovrebbe essere l’effetto non la causa di queste forze.
A meno che non si voglia considerare Empedocle come predecessore dell’elettromagnetismo, che si fonda sul principio di attrazione repulsione della materia, la citi natura ultima, però, rimane ancora inspiegata.
Né le perplessità finiscono qui. Ritengo di poter far mie le obiezioni che Aristotele muove alle funzioni di Amicizia e Contesa che, rispettivamente, sarebbero di aggregazione e disgregazione, perché succede, invece, che talvolta l’amore disgrega e l’odio unisce.
Leggiamo Aristotele:
In molti casi, almeno, gli succede (ad Empedocle) che l’amicizia divide e la contesa unisce: quando, infatti, l’universo, ad opera della contesa, si disgrega nei suoi elementi allora il fuoco, separato dalle altre sostanze, si raduna tutto insieme e così avviene degli altri elementi; quando invece l’amicizia li viene raccogliendo nell’unità, è necessario che le parti di ciascun elemento si separino d’accapo. (Metaph. 1000b)
Lo stesso Aristotele rileva che i quattro elementi vengono adoperati da Empedocle non come quattro, ma come se fossero due soli: il fuoco per conto suo e gli altri tre, terra, aria e acqua, come in un’unica sostanza.

4. INTUIZIONI GENIALI
Non mancano, come si vede, le aporie, ma non mancano le intuizioni felici. C’è, per esempio, in Empedocle, inequivocabilmente riconosciuta, con la contesa che contrasta l’amore, la funzione positiva del negativo che sta a fondamento della dialettica di tutti i tempi. Senza la contesa, infatti, se l’amore regnasse incontrastato. regnerebbero certo l’ordine e l’armonia, ma il nascere, il morire, il divenire e la vita individuale non potrebbero esistere. Non sappiamo se la dialettica empedoclea sia di derivazione eraclitea, ma, a parte il fatto che il filosofo di Efeso non viene mai citato almeno nei frammenti che ci restano, il pensiero di Empedocle non è, tout court, riconducibile a quello di Eraclito, perché evidenti, seppure problematiche, sono le influenze dell’eleatismo.
È possibile invece che questa fecondità del contrasto Empedocle la derivasse dalla sua convinzione politica di sincero democratico, che individuava appunto nel contrasto. e non nell’ordine stagnante, lo strumento della crescita della comunità civile; l’ordine, come annullamento di ogni contrasto è, in politica, la morte della democrazia.
Resta inoltre il fatto che, nel secolo dell’eleatismo, Empedocle abbia tentato di superarlo; la qualcosa dovette essere molto difficoltosa perché coinvolgeva Parmenide, il quale ancora per Platone era il “Padre venerando e terribile”.
Ad Empedocle bisogna riconoscere il merito di aver dato, a suo modo, un’interpretazione della natura iuxta propria principia, di avere aperto la strada al pluralismo di Anassagora e degli atomisti, e, in ultima analisi, anche alla fisica aristotelica che, come è noto, aggiungerà al quattro elementi empedoclei l’etere come quinta sostanza.
In quale posizione va collocata la filosofia di Empedocle nelle correnti del pensiero presocratico?
Non è possibile assegnargli un posto definito all’interno di un’altrettanto definita corrente; il suo pensiero può essere avvicinato ora all’una ora all’altra, senza mai, però, identificarlo con nessuna.
Empedocle ha il destino di ogni genio creativo che sfugge alle catalogazioni scolastiche, che sono spesso gli studiosi a creare. Può essere avvicinato, come abbiamo visto, agli Eleati, ma in una posizione di superamento; Empedocle è discepolo di Parmenide così come Aristotele lo sarà di Platone, così come gli idealisti si dichiareranno kantiani, così come tanti allievi supereranno, senza mai rinnegarlo apertamente, il pensiero dei loro maestri.
Platone, nel Sofista, colloca Empedocle accanto ad Eraclito (242 e), ma in Empedocle non c’è l’eracliteo disprezzo per la doxa, perché anzi per l’Akragantino la doxa è l’anticamera dell’episteme, della vera scienza, la quale, in ultima analisi, nasce proprio per spiegare il senso comune.
Aristotele, invece, lo colloca accanto ad Anassagora e a Democrito; si può essere d’accordo con questa tesi solo dopo aver puntualizzato che, delle concezioni pluralistiche, quella di Empedocle è logicamente e cronologicamente la prima.
Sono presenti, inoltre, nelle Purificazioni, alcune dottrine della tradizione orfico pitagorica, come la trasmigrazione delle anime, come le regole di vita, l’obbligo di non uccidere gli animali e di non cibarsi delle loro carni, a cui però Empedocle aggiunge la sua dottrina della transomatosi, per cui le sostanze che attualmente costituiscono il mio corpo hanno costituito altri corpi, e altri ne costituiranno ancora, essendo ogni corpo un miscuglio provvisorio di sostanze.
Non mancano, infine, influssi del pensiero ionico: si pensi, ad esempio, ad Anassimandro e al doloroso e colpevole distacco delle sostanze dall’apeiron, al quale sono condannate a tornare.
In Empedocle, insomma, sono presenti tutte le istanze del pensiero presocratico che, anche se non armonizzate nell’unità del sistema, sono tuttavia vivificate ed organizzate in modo originale. L’Akragantino è il genio filosofico che riesce a conciliare le opposte ragioni di Parmenide e di Eraclito, attribuendo i caratteri del divenire, che ancora Melisso aveva negato, al continuo mescolarsi delle quattro sostanze e dando a ciascuna di esse alcuni caratteri dell’Essere eleatico.

5. L’ENIGMA NON SI SCIOGLIE
Se fosse vero che un grande uomo è costituito da più uomini ridotti in unità, nessuno sarebbe più grande di Empedocle.
In lui convivono, senza contraddizioni, il filosofo scienziato, che si interroga e ragiona, il mistico, che avverte l’unità della vita del cosmo e la presenza del divino in ogni cosa, l’iniziato dei culti misterici dell’orfismo, che avverte e soffre l’inquietudine che monta dal fondo oscuro e irrazionale dell’universo e dell’animo umano e che percepisce se stesso come divinità decaduta e immersa nella precaria esistenza quotidiana, travagliata dalla coscienza della colpa e dalla nostalgia struggente dei bene perduto, l’asceta, che rinunzia al piacere per purificarsi, il politico e filantropo, che impegna tutte le sue risorse per lenire il dolore dei suoi simili, forse anche il Pigmalione che si autoesalta con orgoglio, e, infine, il poeta ispirato che in versi suggestivi espone il proprio pensiero e canta i suoi stati d’animo e il suo amore per il mondo e per tutti quelli che lo popolano.
Tutto questo non si compone in un’immagine nitida e, perciò, l’enigma Empedocle non si scioglie.
In lui sono compresenti tutte le categorie perenni dello spirito, ciascuna delle quali, da sola, caratterizza una personalità: di solito il filosofo non è poeta, lo scienziato non è mago, il filantropo non è colui che si autoesalta, l’asceta non è politico.
In Empedocle, invece, le personalità più disparate si compenetrano in una unità misteriosa e incomprensibile che non si riesce a cogliere e perciò egli resta un mistero e forse tale resterà per sempre.
Eppure, egli è vivo, vicino e presente. La sua filosofia è ricca di aporie, ma, chissà, forse anche per questo egli è un filosofo che potrebbe avere qualcosa da dirci anche per il terzo millennio.
Siamo, infatti, nell’età del debolismo filosofico, cioè nell’età in cui la filosofia ha preso coscienza dei suoi limiti, che costituiscono anche la sua grandezza e Il suo fascino; essa non è più la risposta definitiva e rassicurante per l’uomo che si interroga sul senso da dare alla sua esistenza, sulla verità assoluta e sul suo destino escatologico, cosa che solo la fede potrebbe fare, ma problematicità appunto, cioè un procedere per punti interrogativi a cui non seguiranno risposte verificabili; la filosofia è connaturata all’uomo perenne che è animale problematico, la cui condizione esistenziale è la meraviglia per la sua esistenza, per tutto ciò che lo circonda, per gli eventi che lo riguardano; la meraviglia attiva il pensiero che si interroga, che procede per poi retrocedere, per deviare e per tornare sui suoi passi, e per tornare ad interrogarsi ancora in un processo infinito perché nessuna risposta sarà mai inattaccabile dal dubbio e dalla critica. Per questo Empedocle è un vero filosofo; egli ha distrutto le presunte certezze degli Eleati ed ha rimesso in cammino il pensiero.
Non riesco, per quanto enigmatico egli resti, a pensarlo come un Cagliostro; mi piace, invece, pensarlo come un Leonardo dell’antichità o come uno scienziato, anche se ec,11 non cessa di essere mago, che lavora per l’umanità.
In ogni caso egli è vivo, presente, attuale, perché in lui palpita un cuore che sente e ama, opera una mente che ragiona e si interroga, agisce un mago che fantastica cercando di scrutare il mistero, un uomo di fede che spera, e c’è altro ancora; in Empedocle ci sono tutte le categorie dell’umanità perenne, di quell’umanità dolente e pensante che un suo Concittadino, altrettanto geniale, porterà, venticinque secoli dopo, sulle scene del teatro.

Prof. Calogero Sciortino